Criteri per la quantificazione dell’assegno di mantenimento dei figli minori
A seguito dell’entrata in vigore della Legge n. 54 del 2006 (Legge sull’affido condiviso), la disciplina relativa al mantenimento dei figli minori è radicalmente cambiata.
A primo impatto, la modifica legislativa in parola sembra incentrare la sua attenzione soprattutto sul modo in cui ciascun genitore deve contribuire al mantenimento del figlio, piuttosto che sui parametri relativi la sua quantificazione.
Nell’art. 155 c.c. comma 4, rubricato “Provvedimenti riguardo ai figli”, così come modificato nel 2006, il legislatore infatti sembra fissare la modalità diretta, quale regime preferenziale di mantenimento; in realtà anche in caso di affidamento condiviso, la giurisprudenza, in concreto, continua preferibilmente a disporre a carico del genitore non affidatario l’obbligo di corresponsione di un assegno periodico (Cass., sez. I, 4 novembre 2009, n.23411; Cass., sez. I, 18 agosto 2006, n.18187; App. Roma, 16 luglio 2008, n.3077; App. Napoli, 6 giugno 2008, n.2201).
Di qui la necessità di un’attenta analisi dei criteri riguardanti la determinazione dell’ammontare di quest’ultimo, indici peraltro non tassativi, assai generici e di difficile applicazione concreta, che la dottrina e giurisprudenza sono costantemente chiamate a specificare.
In estrema sintesi, l’art. 155 c.c. al suo quarto comma dispone che il giudice, nell’emanare i provvedimenti relativi al contributo al mantenimento della prole debba tener conto di diversi criteri: innanzitutto il reddito dei genitori.
Ciascun genitore contribuisce al mantenimento del figlio minorenne proporzionalmente alle proprie capacità economiche, non è necessario l’accertamento dei redditi nel loro esatto ammontare, essendo sufficiente un’attendibile ricostruzione delle complessive situazioni patrimoniali reddituali dei coniugi. Pertanto il giudice non deve considerare soltanto il reddito emergente dalla documentazione prodotta in giudizio dalle parti, ma deve tenere conto anche di altri elementi, apprezzabili in termini economici, suscettibili di incidere sulle condizioni delle parti, quali le disponibilità monetarie di qualsiasi natura, le capacità professionali e tutte le potenzialità in termini di redditività.
Gli altri criteri presi in considerazione dal giudice nel calcolare l’assegno di mantenimento sono: le attuali esigenze del figlio, il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori, i tempi di permanenza presso ciascun genitore ed infine la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore.
Il primo ed il secondo parametro sono strettamente connessi, essi concentrano la loro attenzione sulla figura del minore in quanto parte debole della vicenda famigliare, e rivestono nella logica d’insieme un ruolo preminente rispetto alle capacità economiche genitoriali: il legislatore quando parla di “attuali esigenze del figlio”, richiede al giudice, che nel quantificare il quantum del mantenimento, permetta al minore di non essere pregiudicato nella sua serena crescita e formazione a causa della separazione dei genitori; per poter fare questo si ricollega al primo parametro il secondo, il “tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori”, cioè le normali esigenze del minore devono espletarsi, come dovrebbe avvenire all’interno della famiglia unita ex artt. 147, 148 c.c. e 30 Cost.
Le “esigenze dei figli” comprendono non solo il mantenimento, ma anche tutto ciò che serve all’istruzione, all’educazione, verosimilmente anche sportiva, alla vita di relazione ed alle attività di svago, elementi da dedursi dalle esperienze di vita del minore precedenti alla separazione dei genitori (App. Roma, Sentenza 13 gennaio 2012, n.187).
La prassi giurisprudenziale dimostra come i criteri di cui sopra siano tenuti in seria considerazione dai giudici, tanto che la ratio della massima realizzazione possibile dell’interesse del minore, comporta in genere costanti variazioni relative all’ammontare del assegno con l’avanzare dell’età del minore stesso, in quanto “Le esigenze di giovani donne sono certamente differenti e maggiori rispetto a quelle delle bambine” (App. Napoli, 25 marzo del 2009, n. 232).
Il terzo criterio indicato nel quarto comma dell’art. 155 c.c. consiste nei “tempi di permanenza presso ciascun genitore”: in sostanza il legislatore impone al giudice di tener conto del tempo che il minore trascorre dal genitore in ragione delle spese che esso comporta (esempio classico è l’utilizzo del telefono fisso da parte del figlio minore adolescente per un arco di tempo indeterminabile, uso che in genere provoca un aumento di non poco conto delle spese telefoniche).
Infine sullo stesso piano del terzo si colloca l’ultimo criterio “la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore”: il giudice valuterà espressamente il lavoro casalingo che il genitore svolge nell’interesse del minore, contestualmente ad altre attività connesse, come i trasporti del figlio da un luogo ad un altro, l’acquisto di alimenti a lui destinati e così via.
Importante ricordare, infine, che il dovere dei genitori non cessa, automaticamente, con il raggiungimento della maggiore età da parte del figlio (Cass. civ., 07/04/2006, n. 8221) quando questi non sia ancora in grado di provvedere autonomamente al proprio sostentamento; tuttavia, viene meno qualora lo stesso rifiuti consapevolmente occasioni di lavoro o ritardi senza motivazione il corso degli studi (Cass. civ., Sez. I, n. 1779 del 25 gennaio 2013).
L’obbligo di mantenimento dei figli cessa solamente quando questi hanno raggiunto l’autosufficienza economica e la capacità di mantenersi in concreto, con riferimento agli studi fatti ed alle condizioni del mercato del lavoro al momento in cui questi vi si presenta; l’onere della prova di tali circostanze spetta comunque al genitore (Cass. civ. Sez. I, 22/03/2012, n. 4555).
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