Il genitore che tiene comportamenti diretti ad emarginare l’altra figura genitoriale agli occhi del figlio e che agisca in giudizio contro l’altro genitore con un’azione infondata rischia la condanna al pagamento di una sanzione oltre che delle spese processuali
Costituisce un abuso degli strumenti processuali sorretto da colpa grave, l’agire in giudizio del genitore sulla base di pretese infondate con il solo scopo di escludere l’altro dalla vita del figlio; questo se inserito in un più ampio contesto di condotte definite “alienanti” da parte del ricorrente.
Così ha stabilito la Corte d’Appello di Milano, con decreto dell’11 marzo 2017, la quale ha avuto l’occasione di tornare ad occuparsi della c.d. sindrome da alienazione parentale (PAS).
La vicenda trae origine dal ricorso di una madre che denunciava un sopravvenuto cambiamento nella relazione padre-figlia dovuto ad un disinteressamento del primo e conseguente allontanamento della seconda. Lo scopo dell’azione in giudizio era la modifica della regolamentazione del diritto di visita in senso restrittivo nei confronti dell’ex coniuge. I servizi sociali su richiesta della Corte intraprendono un’indagine nelle more del processo e sottopongono la minore ad una valutazione neuropsichiatrica al fine di individuare le cause di questi problemi insorti nei confronti del padre.
I giudici si soffermato sulla natura della PAS che non è quella di una malattia clinicamente accertabile, ma un insieme di comportamenti integranti condotta illecita e consistenti nel mettere in atto, volontariamente o meno, da parte del genitore alienante una sorta di “lavaggio del cervello” volto a distorcere completamente l’immagine che il minore ha dell’altro genitore.
Nel caso di specie la consulente nominata dal giudice riferisce che i test effettuati sulla bambina fanno emergere dei sentimenti ostili verso il padre, ma essi non sembrano affondare le radici in una reazione post-traumatica. La minore sembra riportare fatti e giudizi in totale sintonia con il pensiero materno senza, tuttavia, supportare le affermazioni con dei contenuti specifici. La madre prospetta alla figlia una visione in cui l’unico responsabile del fallimento della coppia sia il padre, a cui sono attribuiti tutta una serie di qualità negative attinenti all’aggressività. Questo ha ingenerato un rifiuto della piccola per la figura paterna.
Alla luce di tali fatti i giudici hanno dichiarato che «il ricorso presentato dalla madre è risultato essere non solo palesemente infondato ma finanche imprudente: infatti, la causa della crisi dei rapporti genitoriali è da intravedersi in comportamenti materni e non paterni»; inoltre, la donna «abusando del proprio diritto di azione e di difesa, ha contribuito così ad aggravare il volume (già di per sé notoriamente eccessivo) del contenzioso e, conseguentemente, ad ostacolare la ragionevole durata dei processi pendenti».
L’alienazione parentale, argomento molto dibattuto in diverse cause di questo tipo e fonte di contrasti interpretativi, è dunque, secondo i giudici milanesi, un comportamento illecito che può anche giustificare la condanna del genitore alienante al pagamento, non solo delle spese processuali ma anche ad una sanzione a titolo di risarcimento del danno per aver agito in giudizio con mala fede o colpa grave ai sensi dell’art. 96 del codice di procedura civile.
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