Il requisito dello stato di insolvenza ai fini della dichiarazione di fallimento: definizione ed indici sintomatici secondo il recente orientamento giurisprudenziale
Gli articoli 1 e 5 della Legge Fallimentare – r.d. 267/1942 – individuano precisi requisiti oggettivi e soggettivi che devono sussistere ai fini della dichiarazione di fallimento, quali i soggetti che possono essere assoggettati a tale procedura, ovvero gli imprenditori che esercitano un’attività commerciale (quindi, sicuramente, non agricola) sia in forma individuale che societaria, ad esclusione degli enti pubblici e dei piccoli imprenditori e la sussistenza dello stato d’insolvenza, cioè l’impossibilità per l’imprenditore di far fronte regolarmente ai propri impegni, consistenti nel pagare i debiti con denaro, assegni o cambiali.
Con riferimento a tale ultimo presupposto, la giurisprudenza ha ormai adottato una definizione di insolvenza, intesa quale stato di impotenza economico-patrimoniale, strutturale e non soltanto transitoria, che impedisce di soddisfare regolarmente e con mezzi normali le proprie obbligazioni, a seguito del venir meno delle condizioni di liquidità e di credito necessarie all’attività (vedi ex multis Cass. Civ. sent. del 13/03/2001, n. 115; Cass. Civ. sent. del 20/06/2000, n. 8374).
Condizione imprescindibile per la dichiarazione di fallimento risulta essere, pertanto, una generale situazione di difficoltà economica riguardante l’impresa, non momentanea o transeunte, che indipendentemente dai motivi, genera l’impossibilità di far fronte regolarmente alle obbligazioni assunte (vedi ex multis Cass. Civ. sent. del 04/03/2005 n. 4789; Cass. Civ. sent. del 27/01/2008, n. 5215).
In altre parole, deve trattarsi di una condizione patologica dell’impresa, irreversibile, tale da impedire di onorare i propri debiti con mezzi ordinari di pagamento. Debbono considerarsi regolari solo quegli adempimenti ai quali il debitore possa far fronte con mezzi propri attinti dai redditi dell’impresa, o anche con mezzi altrui, ma reperiti in ragione del credito che l’impresa è in grado di produrre e, pertanto, in ragione della fiducia che i terzi ripongono nelle sue concrete potenzialità economico-produttive. La giurisprudenza prevalente ha inoltre escluso con fermezza che l’insolvenza possa desumersi da una mera comparazione tra le attività e le passività dell’impresa, in quanto, anche allorquando le seconde superino le prime, potrebbe comunque sussistere per l’impresa la possibilità di continuare proficuamente ad operare sul mercato, svolgendo la propria attività e fronteggiando con mezzi ordinari le obbligazioni assunte (vedi ex multis Cass. Civ. sent. del 27/02/2001, n. 2830; Cass. Civ. sent. del 28/04/2001, n. 4455).
Il giudizio sullo stato di insolvenza dell’imprenditore commerciale, non può essere di natura meramente quantitativa, in quanto è un giudizio che implica necessariamente valutazioni che ineriscono all’efficienza ed alle capacità produttive e reddituali dell’impresa.
Ai fini dell’accertamento dello stato di insolvenza, non è però sufficiente l’esistenza di singoli inadempimenti, in sé considerati, ma il reiterarsi degli stessi nel corso del tempo, congiuntamente al verificarsi di altri indici sintomatici, quali ad esempio la chiusura di tutti i rapporti da parte degli istituti di credito o la presentazione di ricorsi monitori da parte degli stessi, l’elevazione di numerosi protesti, che dimostrano l’irreversibilità della situazione di dissesto in cui versa l’impresa e il ricorso a mezzi anomali di pagamento. Gli inadempimenti non sono sufficienti, da soli, ad affermare il ricorrere dello stato di insolvenza, ma rappresentano soltanto uno degli indici sintomatici di essa, che può rivelarsi anche da altri fattori esteriori. In particolare, non è detto che gli inadempimenti comportino necessariamente l’insolvenza, potendo l’imprenditore non aver onorato il debito volontariamente, ad esempio perché trattasi di debito contestato, prescritto o estinto per compensazione.
In altre parole, ciò che occorre verificare non è la presenza di inadempimenti, ma la capacità dell’imprenditore di adempiere regolarmente le proprie obbligazioni, con mezzi propri o forniti da terzi (vedi Cass. Civ. sent. del 07/04/2015, n. 6911). Per quanto riguarda gli “altri fatti esteriori” richiamati dalla disposizione normativa, una prima casistica è dettata dall’art. 7 della L.F., relativa al potere del pubblico ministero di proporre istanza di fallimento ove risultino menzionati fuga, irreperibilità, latitanza dell’imprenditore, chiusura dell’impresa, trafugamento, sostituzione o diminuzione fraudolenta dell’attivo. Ad essi si aggiungono altri indici ben noti alla prassi fallimentare, come la presenza di numerosi protesti o di procedure esecutive, un’esposizione debitoria eccedente eccessivamente l’attivo, la revoca dei fidi bancari.
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