In caso di accertamento giudiziale della paternità il padre non ha l’obbligo di risarcire il danno da perdita del rapporto parentale se non era a conoscenza della nascita del figlio ma deve pagare il mantenimento dello stesso
Una volta conseguito l’accertamento giudiziale della paternità, la madre può pretendere dall’altro genitore, il contributo al mantenimento del figlio, oltre al rimborso della quota-parte spettante a quest’ultimo delle spese sostenute per il minore sin dalla nascita.
A ribadirlo una recente sentenza del Tribunale di Ravenna del 30/04/2016 n. 528, che racchiude i principi ormai affermati da tempo da parte della giurisprudenza di legittimità in materia di riconoscimento della paternità e di diritto al mantenimento del figlio, negando però il risarcimento per “danno parentale” richiesto dalla donna, in quanto il padre non era al corrente della nascita del figlio.
Il padre è così obbligato a riconoscere il figlio e a pagare le spese per il suo mantenimento alla donna presso la quale il bimbo vive. Diversamente, le conseguenze per lui possono essere gravi e svariate: a) innanzitutto la madre può avviare un’azione contro l’ex compagno per il riconoscimento della paternità. La stessa azione, se non posta in essere dalla donna, può essere attivata dal figlio una volta raggiunta la maggiore età; b) la madre può chiedere all’uomo, la restituzione del 50% delle somme spese per mantenere il figlio. Il genitore che ha provveduto al mantenimento del figlio minore in via esclusiva ha il diritto, infatti, di ripetere una quota delle spese sostenute e ciò in applicazione analogica dell’articolo 1299 c.c. (regresso tra condebitori solidali in caso di adempimento dell’obbligazione da uno solo di essi), alla stregua del principio che si trae dall’articolo 148 (richiamato dall’articolo 261) che prevede l’azione giudiziaria contro il genitore inadempiente; c) il figlio, raggiunta la maggiore età, può agire contro l’uomo per il risarcimento del danno morale procuratogli dall’assenza della figura paterna e, quindi, dal venir meno dell’affetto di uno dei due genitori, cui si ha sempre diritto sia per natura che per Costituzione.
Il Collegio ha ritenuto provato il rapporto di filiazione sulla base di una relazione sentimentale intrattenuta dall’uomo con la madre in un periodo compatibile con la nascita. La contestazione del convenuto circa la frequentazione da parte dell’attrice di altri uomini, ove considerata in relazione al rifiuto del medesimo convenuto di sottoporsi al test del DNA finisce per rafforzare il valore indiziario da attribuire a tale comportamento da consentire raggiunta la prova della paternità. Infatti, la prova tramite indagine del Dna (effettuata attraverso un semplice prelievo di sangue) è quella che permette di accertare o di escludere, senza ombra di dubbio, la paternità del figlio. Per questo motivo, il rifiuto volontario da parte del presunto padre, per quanto costituisca una libera scelta, può essere valutato al pari di una prova, secondo il libero apprezzamento del giudice ex art. 116, comma 2, c.p.c. di così elevato valore indiziario da potere, anche da solo, consentire la dimostrazione della fondatezza della domanda (cfr. Cass. n. 13885/2015).
Viene respinta, invece, la domanda risarcitoria per “perdita del rapporto parentale”. Per i giudici infatti, pur riconoscendo che la Suprema Corte con sentenza n. 26205/2013 ha affermato che l’inosservanza dei doveri genitoriali, lede il diritto del figlio di ricevere assistenza morale e materiale essenziale per la costruzione dell’identità personale, arrecando in tal modo quasi certamente un danno alla prole. Tuttavia, conclude la sentenza, per la sussistenza della responsabilità aquiliana da illecito endofamiliare, occorre valutare anche l’elemento soggettivo della colpa, ovvero la consapevolezza del concepimento da parte dell’uomo che, nella specie, non appare provata con riferimento alla circostanza non smentita dalla donna della concomitante frequentazione intrattenuta dalla stessa con un altro uomo all’epoca del concepimento.
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