In caso di elargizioni di denaro tra coniugi o tra conviventi si ha diritto a richiederne la restituzione se si dimostra l’esistenza di un contratto di mutuo

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Con sentenza n. 22576 del 07/11/2016, la II sezione civile della Corte di Cassazione conferma il principio in base al quale, chi chiede la restituzione di somme di denaro prestate ad un congiunto, deve provare il titolo dal quale ne derivi l’obbligo.

Il caso riguarda una donna, che al termine di una relazione durata quattro anni, pretendeva da parte dell’ex partner la restituzione della somma di € 22.000,00, prestati in più tranche nel corso del tempo, per saldare alcuni debiti. Chiedeva inoltre che fosse riconosciuto l’arricchimento senza causa dell’ex compagno.

I Giudici di prime e seconde cure rigettavano la domanda, sostenendo che sarebbe stato onere dell’attrice provare la conclusione di un contratto di mutuo con obbligo di restituzione, cosa non avvenuta nel caso di specie. Inutile per la ricorrente lamentare l’insussistenza di una donazione indiretta per mancanza dell’animus donandi.

Aderendo all’interpretazione del giudice a quo, i Giudici di legittimità affermano che, a prescindere dalla qualificazione del rapporto, spettava all’attrice la prova del contratto di mutuo. Aggiunge la Corte che la parte che chieda la restituzione di somme date a mutuo è tenuta a provare, oltre alla consegna, anche il titolo dal quale derivi l’obbligo di controparte alla restituzione. Il contratto di mutuo (art. 1813 c.c.) può concludersi infatti anche oralmente con la consegna della somma, tuttavia il mutuatario deve provare il fatto storico del prestito del denaro.

Sulla base di questi principi la Corte rigettava la domanda della ricorrente, la quale si è vista, pertanto, negare il diritto al recupero delle somme prestate. Una maggiore cautela, magari facendo transitare il denaro attraverso strumenti tracciabili (come ad es. il bonifico bancario con esplicita causale) o formalizzando il prestito con una scrittura privata, avrebbe prodotto un risultato diverso (v. Cass. n. 19304/2013).

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