In caso di violenze domestiche e maltrattamenti in famiglia è possibile ottenere dal giudice l’emissione di ordini di protezione che prevedono l’allontanamento del familiare violento ed il pagamento di un contributo per il mantenimento dei figli minori
Gli ordini di protezione contro gli abusi familiari sono quei provvedimenti che il giudice, su istanza di parte, adotta con decreto per ordinare la cessazione della condotta del coniuge o di altro convivente che sia “causa di grave pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell’altro coniuge o convivente”.
Introdotti nel nostro ordinamento giuridico con legge n. 154/2001 recante “Misure contro la violenza nelle relazioni familiari” attraverso varie disposizioni inserite nel codice civile, di procedura civile e di procedura penale, ha attribuito al giudice la possibilità di adottare misure urgenti ed immediate in favore della vittima di violenze domestiche.
Si tratta di una misura cautelare che il giudice può applicare, sia in sede penale (nel corso di indagini penali o di un procedimento penale) che in sede civilistica, a tutela di persone facenti parte della famiglia, se vittime di violenze o abusi comportanti grave pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà.
L’applicazione della misura in sede penale presuppone l’avvio di indagini per delitti corrispondenti (maltrattamento in famiglia, lesioni, violenza sessuale, violenza privata ecc.), indagini che normalmente dovranno essere precedute da denuncia (o querela) sporta all’autorità competente dalla vittima o da altra persona informata sui fatti.
In sede civilistica la misura può essere richiesta dalla vittima, se maggiorenne, nei confronti del coniuge o di un convivente o di altro componente del nucleo familiare adulto, se autore del comportamento pregiudizievole. Tale provvedimento può essere richiesto indipendentemente dall’instaurazione di un procedimento per separazione personale dei coniugi, ma qualora sia stata già proposta domanda di separazione personale o divorzio, l’art. 8, L. 154/2001 esclude l’applicabilità della tutela, attribuendo al giudice della separazione o del divorzio la competenza ad adottare gli ordini di protezione.
Con l’ordine di protezione il giudice:
- impone al responsabile la cessazione della condotta pregiudizievole;
- dispone l’ allontanamento dalla casa familiare del coniuge o del convivente violento;
- prescrive al responsabile, ove occorra, di non avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dall’istante (casa familiare, luogo di lavoro, eventualmente domicilio della famiglia di origine o domicilio di prossimi congiunti, luoghi di istruzione dei figli);
- dispone eventualmente l’intervento dei servizi sociali;
- prescrive il pagamento periodico di un assegno a favore delle persone conviventi, se per l’assenza dell’allontanato queste sono destinate a rimanere prive dei mezzi di sussistenza.
La durata dell’ordine di protezione non può essere superiore ad un anno, salvo la proroga, che va richiesta, in caso del perdurare dei gravi motivi, con apposita istanza, da presentarsi prima della scadenza del termine prefissato dal giudice.
La sua funzione non è soltanto quella di interrompere situazioni di convivenza turbata, ma soprattutto quella di impedire il protrarsi di comportamenti violenti in ambito familiare. Per comportamenti violenti deve intendersi ogni situazione di grave pregiudizio all’integrità fisica o morale, ovvero alla libertà, di un componente di un nucleo familiare, anche a prescindere dall’esistenza di un rapporto coniugale, imputabile ad altro componente del gruppo medesimo.
Presupposti per l’applicazione degli ordini di protezione, sono la convivenza tra la vittima ed il soggetto cui viene addebitato il comportamento violento, i quali devono vivere all’interno della medesima casa ed una condotta gravemente pregiudizievole all’integrità fisica e/o morale della vittima. Il requisito della convivenza (inteso come “perdurante coabitazione”) sussiste anche quando vi sia stato l’allontanamento, provocato dal timore di subire violenza fisica del congiunto, mantenendo nell’abitazione familiare il centro degli interessi materiali ed affettivi.
Per quanto riguarda la “condotta gravemente pregiudizievole all’integrità fisica”, il presupposto è rappresentato dall’esistenza di un pregiudizio grave all’integrità fisica, “morale” o alla “libertà personale”,come violente aggressioni verbali e minacce di arrecare mali ingiusti.
La circostanza in parola si basa, in altri termini:
- sulla esistenza di fatti violenti dai quali siano derivate non insignificanti lesioni alla persona, ovvero di una situazione di conflittualità tale da poter prevedibilmente dare adito al rischio concreto ed attuale, per uno dei familiari conviventi, di subire violenze gravi dagli altri;
- sulla verificazione di un pregiudizio alla dignità dell’individuo di entità non comune, in relazione alla delicatezza dei profili della dignità stessa concretamente incisi, ovvero per le modalità “forti” dell’offesa arrecata e per la ripetitività o la prolungata durata nel tempo della sofferenza patita dall’offeso, indipendentemente da qualsiasi indagine sulle cause dei comportamenti violenti e sulle rispettive colpe nella determinazione della situazione.
Autore delle condotte pregiudizievoli può essere sia un coniuge o convivente more uxorio nei confronti dell’altro (anche con l’appoggio e la partecipazione attiva degli altri familiari), sia il genitore verso i figli (anche quando i maltrattamenti non sono commessi direttamente sulla persona del minore, ma indirettamente, nei confronti di stretti congiunti a lui cari, quali la visione da parte del minore di ripetute aggressioni fisiche alla madre da parte del padre) che questi ultimi verso i genitori.
L’ordine di protezione non può essere richiesto nel caso in cui vengano violati soltanto i doveri di mantenimento in quanto tale comportamento configura una mera condotta omissiva. Allo stesso modo, una misura protettiva non può essere concessa in presenza di una mera situazione di reciproca incomunicabilità ed intolleranza tra soggetti conviventi, di cui ciascuna delle parti imputa all’altra la responsabilità, almeno quando i litigi, ancorché aspri nei toni, non siano stati aggravati da violenze fisiche o minacce o non si siano tradotti in violazione della dignità dell’individuo di particolare entità.
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