L’alienazione parentale è un concetto giuridico che il Giudice è tenuto a valutare con i comuni mezzi di prova a prescindere dalla validità scientifica o meno di questa patologia che se provata può comportare l’inversione del collocamento del figlio minore

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Lo ha sostenuto la Corte di cassazione con la sentenza n. 6919 del 2016, in una causa avente ad oggetto le modalità di affidamento di una minore dopo l’interruzione della convivenza dei genitori. Il Tribunale per i minori di Milano dispose l’affidamento condiviso della bambina ad entrambi i genitori con collocamento prevalente  presso la madre, incaricando i Servizi sociali di monitorare la situazione; successivamente, tenuto conto dell’atteggiamento della figlia di rifiuto del padre, il giudice vietò a quest’ultimo di frequentarla e prescrisse alla ragazza un percorso psicoterapeutico finalizzato a fare riprendere i rapporti con il padre, rispondendo negativamente alle istanze con le quali l’avvocato di quest’ultimo aveva dedotto l’esistenza di una “sindrome di alienazione genitoriale” (PAS).

Secondo la difesa del padre, infatti, l’allontanamento era stato il frutto di una campagna di denigrazione posta in essere dalla ex moglie nei suoi confronti.

La ragazza aveva manifestato un disagio nei confronti del padre a causa di taluni comportamenti percepiti come invasivi della propria sfera individuale intima.

Il padre fa ricorso in Cassazione per violazione della norma che prevede il diritto della figlia a mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori (l’attuale 337 ter del codice civile), nonché la lesione del suo diritto alla vita familiare tutelato dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (art. 8), sostenendo che la Corte milanese avrebbe omesso del tutto di avviare indagini specifiche volte ad individuare l’esistenza di una PAS (Parental Alienation Syndrome c.d. sindrome di alienazione parentale).

La Suprema Corte trova l’occasione per tornare a riflettere su tale concetto e sostiene una tesi interessante, ossia che la PAS non può definirsi né una patologia, né una sindrome, né tantomeno una malattia mentale.

Essa è semplicemente un’espressione giuridica con cui si definisce quel processo con cui il genitore utilizza il figlio per negare a quest’ultimo il diritto a mantenere un rapporto armonioso e continuativo con l’altro genitore. Proprio per questo non si deve andare alla ricerca della prova scientifica sulla presenza o meno di una malattia o addirittura ad interrogarsi se sia dal punto di vista scientifico valido o meno il concetto di PAS.

Con tale termine si fa riferimento ad una categoria processuale-forense che indica semplicemente dei comportamenti che violano il diritto alla “bigenitorialità” del minore e che altro non sono che fatti la cui esistenza va provata in giudizio con i comuni mezzi di prova: consulente tecniche, testi, esame del minore finanche le presunzioni.

Lo stesso principio di diritto ha trovato conferma dalla stessa Corte milanese che in un decreto dell’11 marzo 2017 ha affermato che la natura della PAS non è quella di una malattia clinicamente accertabile, ma di un insieme di comportamenti integranti condotta illecita e consistenti nel mettere in atto, volontariamente o meno, da parte del genitore alienante una sorta di “lavaggio del cervello” volto a distorcere completamente l’immagine che il minore ha dell’altro genitore.

Il compito del consulente tecnico è quello di indagare sulle motivazioni che stanno alla base del rifiuto del minore verso il genitore.

Nel caso si constatasse la sussistenza di una tale condotta, illecita giuridicamente e disfunzionale e dannosa dal punto di vista psicologico per la crescita del minore, potrebbe aprirsi la strada per un’inversione del collocamento del minore a favore dell’altro genitore. Nel caso siano presenti circostanze che rendano pregiudizievole per il bambino il collocamento anche a favore del genitore “alienato” si darebbe seguito alla misura più drastica dell’affidamento del minore ad una struttura protetta.

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