L’imprenditore o la società in crisi può reperire risorse trasferendo un immobile aziendale o un bene strumentale ad una società di leasing, finanziaria o ad istituti di credito dietro il versamento di un canone di locazione conservando la disponibilità dell’immobile o del bene strumentale
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La previsione nell’ambito del contratto di sale and lease back, di una clausola marciana costituisce garanzia di legittimità dell’operazione di finanziamento, realizzata attraverso la vendita di un bene strumentale dell’impresa industriale o commerciale ad una società di leasing finanziario, che a sua volta concede il bene in locazione alla società venditrice, dietro il pagamento di un canone di utilizzazione. Qualora l’istituto di credito si impegni all’atto della stipula del contratto ad effettuare una stima imparziale del valore del bene ad opera di un terzo, obbligandosi a restituire al debitore l’eventuale eccedenza rispetto all’entità del credito, non si verifica alcuna lesione degli interessi del debitore derivante dal trasferimento del bene in garanzia, in caso di suo inadempimento.
In tal senso si è pronunciata la Suprema Corte di Cassazione con il recente arresto n. 1605/2015, riguardante il caso di un contratto di sale and lease back concluso da una società che versava in pessime condizioni economico-finanziarie con una delle banche di cui era debitrice, concordando la cessione di un bene immobile, che veniva contestualmente concesso in locazione alla società debitrice, in cambio del pagamento di un canone di utilizzazione. Veniva, altresì, prevista la facoltà in favore della società utilizzatrice di esercitare l’opzione di riacquisto alla scadenza del contratto. Le parti inserivano, inoltre, un’ulteriore clausola con la quale stabilivano che in caso di inadempimento della società venditrice, la banca si impegnava a periziare il bene da parte di un soggetto terzo ed imparziale, obbligandosi a restituire l’eventuale importo eccedente l’entità del credito, al fine di acquisire la proprietà dell’immobile.
In particolare, la Suprema Corte nel verificare se la fattispecie negoziale in questione sia stata impiegata al fine di eludere il divieto del patto commissorio, configurando un’ipotesi di leasing anomala, delineava brevemente gli aspetti principali del contratto di sale and lease back, detto anche locazione finanziaria di ritorno, precisando che costituisce una peculiare tipologia di contratto di leasing finanziario, dal quale differisce per avere struttura bilaterale e non trilaterale, potendo essere soltanto due i soggetti dell’operazione. Si configura come un’operazione negoziale complessa, attuata attraverso il collegamento tra il contratto di vendita di un bene di natura strumentale da parte di un’impresa ad una società di finanziamento che, a sua volta, lo concede contestualmente in leasing all’alienante, dietro pagamento di un canone di utilizzazione, con facoltà alla scadenza del contratto di riacquistare la proprietà esercitando il diritto di opzione per un predeterminato prezzo. Si tratta, pertanto, di un negozio che consente all’impresa alienante di ottenere immediata liquidità, quale conseguenza della vendita, senza privarsi al contempo del godimento del bene che rimane nella propria disponibilità, per effetto della rilocazione dello stesso da parte della società finanziaria. Il vantaggio per l’alienante consiste nell’acquisizione di un finanziamento, che viene restituito di fatto attraverso il pagamento dei canoni, mentre la società di leasing consegue l’obiettivo di acquisire la garanzia della proprietà del bene a fronte del finanziamento erogato. Il negozio di sale and lease back può violare la ratio del divieto del patto commissorio di cui all’art. 2744 c.c. (che vieta il passaggio di proprietà in favore del creditore della cosa ipotecata o data in pegno, in caso di mancato pagamento del credito da parte del debitore) ogniqualvolta lo scopo di garanzia costituisca non già mero motivo del contratto ma assurga a causa concreta della vendita con patto di riscatto o di retrovendita (cfr. Cass., SS.UU., n. 26973/2008). Ciò può accadere in presenza di alcuni dati sintomatici ed obiettivi quali la sussistenza di una situazione di debito e credito tra la società finanziaria e l’impresa venditrice-utilizzatrice preesistente o contestuale alla vendita o la sproporzione tra entità del prezzo e valore del bene alienato dai quali risulti che nel quadro del rapporto diretto ad assicurare una liquidità all’impresa alienante, l’alienazione è strumentalmente piegata al rafforzamento della posizione del creditore-finanziatore, che in tal modo tenta di acquisire l’eccedenza del valore, abusando della debolezza del debitore (cfr. Cass. Civ. S.U. n. 1611/1989; Cass. Civ. n. 10805/1995; Cass. Civ. n. 6663/1997; Cass. Civ. n. 2285/2006). In particolare, la Suprema Corte, nella pronuncia in esame, ha ribadito che lo schema negoziale tipico del lease-back presenta autonomia strutturale e funzionale, quale contratto di impresa, dotato di una specifica utilità economica, in quanto permette all’imprenditore lo smobilizzo di capitali al fine di ottenere maggiore liquidità non rinunciando, tuttavia, al godimento del bene strumentale alienato. Per tale ragione, osserva la Suprema Corte, non è possibile ritenere che esso si risolva sempre in un negozio atipico nullo per illiceità della causa concreta, perché integrante fattispecie di alienazione a scopo di garanzia. Chiarito, pertanto, che il contratto di sale and lease back, di per sé astrattamente lecito, può costituire nel caso concreto uno strumento volto ad eludere il divieto del patto commissorio, la Cassazione si è interrogata circa la possibilità che la presenza nel contratto di una c.d. clausola marciana, quale garanzia di legittimità dell’operazione di sale and lease back, sia tale da escluderne il carattere fraudolento. Il patto marciano consiste in una clausola contrattuale con la quale si mira ad impedire che il concedente, in caso di inadempimento dell’utilizzatore, si appropri di un valore superiore all’ammontare del suo credito, pattuendosi che, al termine del rapporto, si proceda alla stima del bene e il creditore sia tenuto al pagamento in favore del venditore dell’importo eccedente l’entità del credito. Secondo quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità, la previsione di tale clausola del negozio, poiché produce l’effetto di ristabilire l’equilibrio sinallagmatico tra le prestazioni, evitando che il debitore subisca una lesione dal trasferimento del bene in garanzia. La stima del bene dovrà essere effettuata ad opera di un terzo, con tempi certi e modalità definite, tali da assicurare una valutazione imparziale basata su parametri oggettivi ed autonomi, pur ammettendo la previsione di differenti modalità di stima, così come diffuse nella pratica degli affari (cfr. Cass. Civ. n. 10986/2013 e n. 1273/2015). Ad ogni modo, ciò che rileva è che risulti anticipatamente che il debitore perderà la proprietà del bene ad un giusto prezzo, determinato al momento dell’inadempimento, con restituzione della differenza rispetto al maggior valore.
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