Obbligo di ripeschaggio del datore di lavoro in caso di licenziamento
Legittimo il licenziamento per motivi oggettivi se la riorganizzazione aziendale è effettiva ed il datore di lavoro prova l’inutilizzabilità del lavoratore in altre mansioni.
Non è infrequente che un lavoratore venga licenziato dall’azienda per giustificato motivo oggettivo determinato da ragioni connesse all’organizzazione dell’attività produttiva, specialmente in tempi di crisi economica come quelli di oggi.
Affinché sia ritenuto legittimo un licenziamento intimato al lavoratore per giustificato motivo oggettivo è necessario che la riorganizzazione aziendale sia effettiva e non strumentalmente finalizzata a celare il pretesto di aggirare la normativa sui licenziamenti individuali e liberarsi così di personale non gradito.
Il datore di lavoro ha pertanto l’onere non solo di provare la sussistenza delle ragioni poste alla base del recesso, ma altresì deve fornire la prova dell’inutilizzabilità del lavoratore in altre mansioni, analoghe a quelle svolte in precedenza all’interno della struttura aziendale, o qualora ciò non sia possibile in mansioni inferiori rispetto a quelle indicate in contratto, gravando su di lui l’obbligo di verificare il possibile reimpiego del lavoratore all’interno dell’azienda c.d. obbligo di “repêchage”.
La verifica dell’impossibilità da parte del datore di lavoro di adibire il lavoratore ad altre mansioni analoghe o inferiori a quelle precedentemente svolte deve essere estesa all’intera azienda e non alla sola sede o reparto a cui era addetto il lavoratore, ed anche alle società facenti parte del medesimo gruppo imprenditoriale, quando si dimostri l’esistenza di unico centro di imputazione di rapporti giuridici. Sussiste un unico centro di imputazione qualora: 1) le attività esercitate dalle diverse imprese si integrano l’una con l’altra; 2) sussiste un unico coordinamento amministrativo, tecnico e finanziario; 3) vi è un utilizzo promiscuo, da parte delle diverse imprese, delle prestazioni lavorative dei dipendenti; 4) sussiste un’unica struttura organizzativa e produttiva.
Con riferimento all’obbligo di “repechage” gravante sul datore di lavoro, si è sempre ritenuto in passato che tale verifica andasse condotta con riguardo a mansioni equivalenti a quelle precedentemente svolte dal lavoratore, mentre risultava controversa la questione se il datore di lavoro potesse adibire il lavoratore a mansioni inferiori rispetto a quelle previste in contratto, a causa del limite posto dall’art. 2103 c.c. che prima della sua modifica imponeva il divieto di demansionare il lavoratore, a pena di nullità di ogni eventuale patto contrario tra le parti contrattuali del rapporto di lavoro.
A tal fine è intervenuta la Corte di Cassazione con la sentenza del 9 novembre 2016 n. 22798 che ritiene applicabile retroattivamente alla vicenda, nell’interesse del lavoratore al mantenimento del posto di lavoro, le novità introdotte nel nostro ordinamento dal Jobs Act.
Nel caso in questione, la Corte di Appello di Firenze aveva ribaltato la sentenza del Giudice di Prime cure, dichiarando illegittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato ad un dipendente sull’assunto che non fosse stata adeguatamente provata l’impossibilità di “repechage”.
In particolare, a fronte del venir meno della necessità di personale addetto alla conduzione di macchine di escavazione, il datore di lavoro nonostante avesse proceduto al licenziamento del dipendente che si era reso disponibile ad essere adibito a mansioni anche inferiori, assumeva nuova manovalanza.
Avverso la sentenza di secondo grado il datore di lavoro proponeva ricorso per cassazione.
La Corte di legittimità ha rigettato il ricorso proposto dal datore di lavoro e ponendo a fondamento della decisione i principi espressi nella pronuncia a Sezioni Unite (n. 7755/1998) ha ritenuto che, in ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, l’esigenza di tutela del diritto alla conservazione del posto di lavoro è prevalente su quella di salvaguardia della professionalità del prestatore di lavoro, a condizione però che vi sia il consenso del lavoratore al demansionamento.
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