Per l’acquisto di un bene immobile in regime di comunione legale non è sufficiente la partecipazione del coniuge non acquirente alla stipula dell’atto per escludere il bene dalla comunione
Nel caso di acquisto di un immobile effettuato dopo il matrimonio da uno dei coniugi in regime di comunione legale, la partecipazione all’atto da parte dell’altro coniuge non acquirente, prevista dall’art. 179 c.c., comma 2, si pone come condizione necessaria ma non sufficiente per l’esclusione del bene dalla comunione occorrendo, a tal fine, non solo il concorde riconoscimento da parte dei coniugi della natura personale del bene – richiesto esclusivamente in funzione della necessaria documentazione di tale natura – ma anche l’effettiva sussistenza di una delle cause di esclusione dalla comunione tassativamente indicate dall’art. 179 c.c., comma 1, lett. c), d) ed f). Con la conseguenza che l’eventuale inesistenza di tali presupposti può essere fatta valere con una successiva azione di accertamento negativo, non risultando precluso tale accertamento dalla circostanza che il coniuge non acquirente sia intervenuto nel contratto per aderirvi (Cass. sez. un. n. 22755 del 2009). Né si può assegnare alla dichiarazione del coniuge comparente, verbalizzata nell’atto pubblico di compravendita, valore di confessione di un fatto storico, come tale, revocabile successivamente solo per errore di fatto o violenza (art. 2732 c.c.) (Cass. n. 18114 del 2010).
In tal senso si è espressa di recente la Suprema Corte con sentenza n. 29342 del 14/11/2018 in riferimento al caso di una coppia – in comunione legale dei beni – che vivendo in una casa coniugale già di proprietà della moglie per il 50% e del fratello della medesima per la restante parte, provvedeva in costanza di matrimonio ad effettuare l’acquisto della quota del fratello, mediante la stipulazione da parte della moglie di un atto notarile, nel quale dichiarava che l’acquisto avveniva ai sensi dell’art. 179, lett. f) c.c. ovvero che il bene veniva acquistato con il ricavato ottenuto dalla vendita di un bene personale. Alla conclusione di tale atto partecipava anche il marito, a conferma della dichiarazione resa dalla moglie.
Successivamente alla separazione dei coniugi, il marito avanzava nei confronti della moglie richiesta di riconoscimento della propria quota di comproprietà dell’immobile, sostenendo che il bene facesse parte della comunione, chiedendone pertanto il rimborso della quota allo stesso spettante. In primo e secondo grado i giudici di merito rigettano la domanda dell’uomo, ritenendo che la partecipazione dello stesso alla conclusione dell’atto di acquisto avesse determinato l’esclusione del bene dalla comunione.
In Cassazione il verdetto viene ribaltato, precisando che, in caso di comunione legale tra i coniugi, il bene acquistato dai medesimi, insieme o separatamente, durante il matrimonio, costituisce, in via automatica, ai sensi dell’art. 177, comma 1, lett. a), c.c., oggetto della comunione tra loro e diventa, quindi, in via diretta, bene comune ai due coniugi, anche se destinato a bisogni estranei a quelli della famiglia ed il corrispettivo sia pagato, in via esclusiva o prevalente, con i proventi dell’attività separata di uno dei coniugi, a meno che non si tratti del denaro ricavato dall’alienazione di beni personali (e sempre che, in quest’ultimo caso, l’acquirente dichiari espressamente la provenienza del denaro: art. 179, lett. f, c.c.) ovvero si tratti di un bene di uso strettamente personale di ciascun coniuge (art. 179, lett. c, c.c.) ovvero che serve all’esercizio della professione del coniuge (art. 179, lett. d, c.c.), ed, in caso di acquisto di beni immobili (o di beni mobili registrati), tale esclusione risulti dall’atto di acquisto ed il coniuge non acquirente partecipi alla relativa stipulazione (art. 179, comma 2, c.c., con espresso riferimento ai casi previsti dall’art. 179, lett. c,d,f, cit).
Ne consegue, pertanto, secondo i giudici di legittimità che la dichiarazione resa nell’atto dal coniuge non acquirente, ai sensi dell’art. 179, comma 2, c.c., in ordine alla natura personale del bene, si pone, come condizione necessaria ma non sufficiente per l’esclusione del bene dalla comunione, occorrendo a tal fine non solo il concorde riconoscimento da parte dei coniugi della natura personale del bene, richiesto esclusivamente in funzione della necessaria documentazione di tale natura, ma anche l’effettiva sussistenza di una delle cause di esclusione dalla comunione tassativamente indicate dall’art. 179, comma 1, lett. c), d) ed f), c.c. (Cass. n. 11668 del 2018). Pertanto, contrariamente a quanto affermato dalla Corte di merito, secondo la quale, per l’esclusione della caduta in comunione del bene acquistato da un coniuge in regime di comunione dei beni “deve ritenersi sufficiente la sua partecipazione alla conclusione del contratto, accompagnata dalla mancata opposizione alla dichiarazione di esclusione resa dall’altro coniuge ed inserita nell’atto” la dichiarazione concorde del ricorrente nell’atto notarile non può considerarsi idonea a determinare in sé l’esclusione dalla comunione dell’acquisto fatto dalla controricorrente, caratterizzata come è dal solo richiamo alle conseguenze giuridiche dell’atto.
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