Responsabilità medica e risarcimento del danno
La sentenza della Corte di Cassazione Civile del 21/07/2011 n. 15993 si pone nell’alveo di una serie di interventi volti a stabilire, in materia di danno derivante da responsabilità medica, un allargamento dell’ambito della responsabilità contrattuale di cui all’art. 1218 del c.c., attraverso l’espediente del contatto sociale.
La prestazione del medico, difatti, si inserisce all’interno di un rapporto obbligatorio che si instaura tra quest’ultimo ed il paziente nel momento stesso in cui le parti entrano in contatto, senza che sia necessaria la conclusione di un apposito contratto. Il nostro ordinamento, attraverso l’interpretazione giurisprudenziale, è giunto infatti a ritenere che la professionalità del medico (ma tale discorso può estendersi anche ad altre figure professionali per le quali è richiesta una speciale abilitazione) è di per se stessa sufficiente ad ingenerare affidamento e aspettative di buona riuscita in colui che ad esso si rivolga, soprattutto quando essa abbia ad oggetto beni costituzionalmente garantiti, come il bene della salute tutelato dall’art. 32 Cost..
Di conseguenza la condotta del sanitario che cagioni conseguenze pregiudizievoli in capo al paziente, non può ricondursi nell’ipotesi del danno extracontrattuale sanzionato dall’art. 2043 del c.c., poiché la sussistenza di una preesistente relazione tra le parti ne determina invariabilmente il suo inquadramento nell’ambito della responsabilità contrattuale.
L’azione risarcitoria fondata pertanto sulla responsabilità contrattuale del medico per il danno causato nell’esecuzione di un’operazione è soggetta all’ordinario termine di prescrizione decennale, ed i regimi della ripartizione dell’onere della prova e del grado della colpa sono quelli tipici delle obbligazioni scaturenti da contratto d’opera intellettuale professionale (art. 2236 c.c.)
In particolare, nella pronuncia de quo, si tratta del caso di un odontoiatra che non aveva eseguito a regola d’arte degli impianti dentari, cagionando nel paziente lesioni permanenti ad un ramo del nervo facciale. Si evidenzia che l’intervento posto in essere dall’odontoiatra viene considerato di routine, in quanto frequentemente praticato negli studi dentistici, oltre a non presentare problemi di particolare difficoltà tecnica, essendo di agevole ed abituale esecuzione. Proprio da tale considerazione la giurisprudenza della Suprema Corte ha argomentato per giungere alla conclusione che nell’ipotesi di attività routinaria, che non pone problemi particolari, l’applicazione delle regole tecniche in modo diligente assicura il raggiungimento del risultato sperato, mentre il mancato risultato fa presumere negligenza ed imperizia da parte del sanitario. Di conseguenza in ipotesi di interventi definiti routinari non potrà applicarsi il disposto di cui all’art. 2236 c.c. che in materia di responsabilità per i danni cagionati nell’esercizio della professione medica, limita tale responsabilità soltanto ai casi di dolo e colpa grave, poiché tale norma si riferisce esclusivamente ad ipotesi di problemi tecnici di speciale difficoltà. Per quanto riguarda, invece, gli interventi che si trovano al di fuori dell’ipotesi di speciale difficoltà di cui alla norma citata, occorre riportarsi alla disciplina generale prevista dall’art. 1176 c.c. per l’esercizio di un’attività professionale, la quale prevede l’obbligo di usare la diligenza del buon padre di famiglia rapportata però allo specifico ambito tecnico del professionista. In tali fattispecie viene, quindi, in considerazione la colpa lieve, da presumere sussistente ogni qualvolta venga accertato un risultato peggiorativo delle condizioni del paziente. Questa differenziazione della responsabilità del sanitario a seconda del grado di difficoltà dell’operazione eseguita, comporta importanti conseguenze anche sul piano probatorio, in quanto nel caso di interventi routinari, il paziente, parte lesa, sarà tenuto esclusivamente a provare il peggioramento delle proprie condizioni perché sussista la presunzione di colpa lieve (cfr. Cass. civ., Sez. III, 19 aprile 2006, n. 9085).
In definitiva, il paziente che abbia riportato un danno in seguito ad un intervento o ad un trattamento medico, sarà tenuto a dimostrare in giudizio soltanto la sussistenza del “contatto sociale” con il medico curante o con la struttura sanitaria nell’ambito della quale l’operazione è stata eseguita, ed il peggioramento delle proprie condizioni di salute. La prova dell’avvenuto adempimento o dell’esatto adempimento della prestazione medica dovrà, invece, essere fornita direttamente dal sanitario stesso in conformità al noto principio della vicinanza o della riferibilità della prova.
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